giovedì 17 febbraio 2011

«Ruby, le telefonate, i bonifici» Le carte del giudizio immediato

MILANO - Silvio Berlusconi aveva «l'evidente scopo» di nascondere il reato di aver avuto rapporti sessuali a pagamento con una minorenne e voleva «assicurarsene l'impunità» che «la giovane e poco controllabile Karima El Mahroug ben avrebbe potuto porre a rischio», quando fece pressioni sulla Questura di Milano affinché la 17enne marocchina fosse affidata con una «procedura macroscopicamente anomala» alla consigliera regionale Nicole Minetti. Nelle 27 pagine del decreto notificato ieri a Silvio Berlusconi e alle parti lese il giudice Cristina Di Censo spiega perché, rinviando a giudizio immediato il premier per la vicenda Ruby, ritiene che i pm Ilda Boccassini, Piero Forno e Antonio Sangermano abbiano nelle mani quella «prova evidente» (che nulla ha a che vedere con la colpevolezza) richiesta dal codice per saltare l'udienza preliminare e sostenere l'accusa nel processo che comincerà il 6 aprile in Tribunale di fronte ai giudici della quarta sezione penale.

Abuso di potere da parte del premier
Secondo l'accusa, la sera del 27 maggio 2010 Silvio Berlusconi, allertato da Milano sul cellulare personale dalla prostituta brasiliana Michelle Conceicao mentre era a Parigi ad un vertice internazionale, chiamò il capo di gabinetto della Questura di Milano Pietro Ostuni per fare pressioni affinché «Ruby» fosse affidata alla Minetti invece che a una comunità per minorenni. Con quelle pressioni, che servivano ad evitare che emergessero i suoi rapporti con la giovane, per la Procura Berlusconi avrebbe commesso il reato di concussione. La difesa del premier ha sostenuto che non ci fu alcun reato e, se mai ci fosse stato, esso dovrebbe essere giudicato dal Tribunale di ministri e non da quello ordinario. Una tesi seguita anche dalla Camera dei deputati respingendo la richiesta di perquisizione dell'ufficio di Giuseppe Spinelli, l'amministratore del «portafoglio» personale di Silvio Berlusconi dal quale sarebbero partiti i pagamenti per le ragazze del bunga bunga. Il gip risponde a queste obiezioni scrivendo che, dopo aver esaminato le fonti di prova, si è convinta che la tesi della Procura non è campata in aria e che ci sono parecchi elementi che i giudici del Tribunale dovranno valutare. «È evidente che l'ipotizzato, indebito, intervento» su Ostuni e, a cascata, sugli altri due funzionari che quella sera furono investiti del problema, fu fatto da Berlusconi «sicuramente con abuso della qualità di presidente del Consiglio». Ma questo avvenne «al di fuori di qualsivoglia prerogativa istituzionale e funzionale propria» del premier. Come dire, si mosse con il peso emotivo che la sua carica poteva esercitare sui funzionari, ma non con quello proprio del premier perché come tale non ha «nessuna competenza» sulla «identificazione e affidamento dei minori» né ha «poteri di intervento gerarchico sulla Polizia che dipende solo dal ministro degli Interni.

Nipote di Mubarak «non è logico»
In una memoria allegata agli atti, i difensori di Silvio Berlusconi, gli avvocati-parlamentari Niccolò Ghedini e Piero Longo, sostengono che quella fatidica sera il premier intervenne per «salvaguardare le relazioni internazionali con l'Egitto», dato che riteneva «erroneamente» che Karima El Marough fosse la nipote del presidente egiziano. È una tesi «apertamente contraddetta dalla logica degli accadimenti», sostiene il giudice: in primo luogo, Silvio Berlusconi quando parlò con Ostuni «fece riferimento in termini generici e dubitativi all'illustre consanguineità della minorenne»; in secondo luogo, non risulta che la presidenza del Consiglio, «per tutelare le relazioni diplomatiche con l'Egitto», abbia in qualche modo contattato «le autorità di quello stato per la verifica della nazionalità e dell'identità» di Ruby. Quando poi fu chiaro che si trattava di una marocchina di 17 anni, sbandata, fuggita da una casa di accoglienza in Sicilia, la ragazza «non fu affidata a una qualsivoglia delegazione diplomatica, ma consegnata alle cure del consigliere regionale Nicole Minetti». La Minetti, 25 anni, eletta alle ultime regionali nel listino bloccato Pdl di Roberto Formigoni su indicazione di Berlusconi, di cui è stata igienista dentale, è imputata con il direttore del Tg4 Emilio Fede e l'impresario dello spettacolo Lele Mora per favoreggiamento della prostituzione, anche minorile, nell'inchiesta dalla quale è stata stralciata la posizione del premier e che sarà chiusa con il deposito degli atti la prossima settimana.

Assicurarsi l'impunità Ruby è poco controllabile
Il gip scrive che «l'esito della vicenda» in Questura, «storicamente certo», conferma «la ricostruzione dell'accusa» e, cioè, che Berlusconi intervenne per un «interesse» diretto che «riguardava la ragazza e non le parentele extracomunitarie» della giovane. Ma quale sarebbe stato questo interesse? Evitare che ciò che Ruby sapeva sulle feste ad Arcore finisse nelle mani della polizia. Il processo dovrà stabilire se, come sostiene la Procura, «la sottrazione della minore alla sfera di controllo della polizia» aveva per Berlusconi lo scopo di «occultare» il reato di prostituzione minorile e «assicurarsene l'impunità», che «la giovane e poco controllabile Karima El Mahroug ben avrebbe potuto porre a rischio». I due reati, per il giudice, non sono separabili in distinti processi e vanno giudicati insieme dal Tribunale di Milano. Pertanto non c'è alcuna «violazione di legge nella scelta del Pm di mantenere unificate le due contestazioni».


Le prove in 14 pagine Spuntano le auto delle ragazze
La documentazione raccolta nelle indagini, divisa per aree tematiche, riempie 14 delle 27 pagine del decreto di giudizio immediato. Sono «plurime e variegate le fonti di prova», tutte «riferite e pertinenti ai fatti di imputazione». Si va dai momenti della notte in Questura, passando per le relazioni di servizio firmate dai poliziotti che, due mesi dopo i fatti, innescarono in parte l'inchiesta per passare ai cinque interrogatori di Ruby dinanzi ai pm tra il 2 luglio e il 3 agosto fino agli interrogatori delle ragazze che partecipavano alle feste, tra le quali la brasiliana Iris Berardi, presente di notte anche quando era minorenne. Ci sono poi le intercettazioni (mai di parlamentari) e la documentazione bancaria raccolta recentissimamente. Tra cui alcune verifiche su assegni e bonifici dal conto corrente 2472 intestato a Spinelli nella Banca popolare di Sondrio, soldi usati per acquistare autovetture. Accertamenti preceduti da verifiche sulla proprietà di auto intestate ad alcune delle ragazze. Seguono i movimenti di denaro tra Berlusconi, Spinelli, Mora e Fede oltre all'esame, attraverso i tabulati telefonici, dei presenti alle feste di Arcore anche a novembre e dicembre 2010. «Fonti prova di natura dichiarativa documentale, intercettativa e investigativa pura» che, a parere del giudice Cristina Di Censo, «convergono nel senso della ricostruzione delittuosa prospettata dall'accusa». Elementi che, «allo stato degli atti», paiano essere «efficacemente contrastati dai contenuti delle investigazioni» fatte dalla difesa del premier che, anzi, «in più punti stridono in termini netti con le acquisizioni dell'indagine pubblica». Una ragione in più perché tutto sia valutato in un processo.

Parti lese Il ministro Maroni
Si tratta di Ruby, presunta vittima del reato di prostituzione minorile, dei tre funzionari della Questura di Milano vittime della presunta concussione: Giorgia Iafrate, che si occupò dell'affidamento della marocchina alla Minetti, del capo di gabinetto Ostuni e del funzionario Ivo Morelli, dirigente dell'Ufficio Prevenzione Generale. Se i dipendenti del ministero dell'Interno furono vittime del premier, è logico che anche lo stesso ministero, attraverso il suo rappresentante «pro tempore», il leghista Roberto Maroni, compaia tra le parti lese.

Le ultime settimane di Steve

MILANO - Steve Jobs, l'uomo che ha inventato iPod, iPhone e iPad, ha solo «sei settimana di vita». È quanto scrive il tabloidNational Enquirer, pubblicando le fotografie, scattate l'8 febbraio, di uno Jobs «scheletrico» all'uscita del Centro oncologico Stanford, in California. «Guardando le foto è prossimo alla fine, dire che ha sei settimane», ha detto al National Enquirer il medico Samuel Jacobson. Il fondatore e amministratore delegato di Apple, 55 anni, ha lasciato il lavoro alla fine di gennaio, annunciando in una e-mail inviata ai dipendenti dell'azienda di volersi «concentrare sulla mia salute». «Continuerò, in qualità di amministratore delegato, a occuparmi delle decisioni strategiche per l'azienda», ha precisato. È la terza volta che Jobs lascia il lavoro per motivi di salute: da sette anni sta combattendo contro un rara forma di cancro al pancreas e ha subito un trapianto di fegato nel 2009.

Roma disastrosa, ko con lo Shaktar


MILANO - Prosegue il momento negativo per le italiane in Champions. Dopo il Milan anche la Roma viene infatti sconfitta in casa nell'incontro d'anta degli ottavi di finale.. All'Olimpico finisce 3-2 per lo Shaktar di Donetsk che sulla carta doveva essere la squadra più abbordabile degli ottavi. Era andata male anche martedì al Milan piegato per 1-0 dal Tottenham a San Siro. Come se non bastasse la sconfitta, dopo il fischio finale Gattuso, nervoso per tutto il secondo tempo, perde le staffe e sferra una testata a Joe Jordan, ex attaccante milanista ora nello staff tecnico degli Spurs. I due avevano avuto spesso da ridire anche durante la partita, ma Gattuso era stato trattenuto dai compagni di squadra. Dopo il fischio finale non ha più frenato la rabbia, e si è scagliato come un treno contro il tecnico inglese. Ora di scena vanno le altra due superstiti italiane nelle coppe. Solo il Napoli per l'Europa League, e al San Paolo, giovedì col Villarreal. Per l'Inter appuntamento la prossima settimana (23 febbraio): a San Siro affronta il Bayern nella rivincita della finale di un anno fa.
DISASTRO ROMA - Lo Shakhtar Donetsk espugna l'Olimpico e ipoteca la qualificazione ai quarti di finale di Champions League. Servirà l'impresa alla Roma che perde 3-2 in casa e che adesso è chiamata all'impresa nel match di ritorno. Dopo il vantaggio di Perrotta, i giallorossi subiscono 3 gol in 12 minuti, chiudono il primo tempo sull'1-3 e poi, nella ripresa, accorciano le distanze con Menez. Brutta sconfitta, la seconda consecutiva dopo quella con il Napoli. Si comincia con Ranieri che si schiera la coppia Totti-Vucinic in attacco, Menez e Taddei sono gli esterni, De Rossi e Perrotta centrali. Lucescu schiera un 4-2-3-1 affidando la fase offensiva ai suoi brasiliani. Possesso palla ucraino, Roma poco aggressiva ma che cresce con il passar dei minuti e, al 21', va vicina all'1-0 con un colpo di testa di Burdisso. Buon momento per i giallorossi, al 23' ci prova Vucinic con un bel destro a girare di poco alto, al 28' la Roma passa. Taddei cerca sul secondo palo Perrotta, colpo di testa da posizione defilata, la palla carambola su Rat e finisce in rete. La gioia del gol dura pochi secondi perchè al 29', su una respinta corta di Burdisso, il destro di Jadson dai 18 metri viene deviato da De Rossi e supera Doni: 1-1. La Roma sbanda e, al 36', Douglas inventa un sinistro a girare che vale l'1-2. Vucinic prova a raddrizzare la partita, ma il suo sinistro è largo. Sul capovolgimento di fronte Riise perde clamorosamente palla franando a terra, ne approfitta Douglas Costa che serve a Luiz Adriano la palla dell'1-3. La Roma torna negli spogliatoi sommersa dai fischi. Nella ripresa subito fuori Riise dentro Castellini. Al 16' Menez riapre la partita con uno splendido destro che si infila sotto l'incrocio. La Roma si sbilancia, rischia di subire il quarto gol, ma con Castellini, Totti e Borriello va vicina al 3-3. Finisce 3-2 per lo Shakhtar, adesso serve l'impresa (vittoria a Donetsk con due gol di scarto) per restare in Europa.

Tasse e Federalismo Tariffe più Care

ROMA - In Italia capita anche questo. Succede che due Comuni praticamente falliti finiscano nell'elenco delle amministrazioni più virtuose, quelle premiate dallo Stato con la possibilità di spendere più soldi rispetto ai limiti ferocemente imposti dal Patto di Stabilità. Possibile che nella lista ci sia anche Catania? La città dove il neosindaco Raffaele Stancanelli, appena eletto a metà 2008, denunciò con le mani tra i capelli un miliardo di debiti nascosti nelle pieghe del bilancio? Dove il suo predecessore era inseguito da torme di creditori di tutte le specie, dai librai cittadini alle ballerine brasiliane? Dove le strade erano al buio perché non erano state pagate le bollette dell'Enel? E dove, per assurdo, il bilancio di quel 2008 appariva talmente in ordine da far guadagnare a Catania un premio da 983.411 euro? Premio, per inciso, negato a città mai censurate per cattiva amministrazione, come Sondrio, Belluno, Asti...
Catania come Taranto. Comune dichiarato ufficialmente in dissesto finanziario e sommerso da un debito pazzesco di 616 milioni di euro, dove succedeva davvero di tutto. Perfino che 23 dipendenti, dopo essersi aumentati lo stipendio da soli rubando alle casse municipali 5 milioni, restassero miracolosamente al loro posto. Una città talmente sprofondata nel buco nero dei debiti, che i liquidatori ci hanno messo tre anni per ricostruire la contabilità e pagare i creditori. Con i denari dei contribuenti, naturalmente. Gli stessi quattrini che due anni dopo hanno permesso alla città di incassare un bel «premio» da 1.378.069 euro.
Difficile spiegare tutto questo. Una sola cosa è certa: l'elezione diretta di sindaci e governatori e la riforma del Titolo V della Costituzione, voluta nel 2001 dal centrosinistra, hanno dato agli amministratori locali maggiori poteri, ma non maggiori doveri. Da allora ad oggi metà della spesa pubblica è passata dal centro alla periferia, ma il compito di tassare i contribuenti è rimasto allo Stato, perché Regioni, Comuni e Province sono responsabili solo del 18% delle entrate. La finanza locale, già caotica, è diventata ancora più disordinata. E indebitata, perché mentre montava il caos normativo e istituzionale, da Roma, inseguendo il risanamento dei conti pubblici, hanno cominciato a tagliare i trasferimenti di bilancio.
Fatto sta che oggi gli italiani si trovano appesantiti, solo a livello locale, da 45 fra tasse, tributi, canoni, addizionali, compartecipazioni, con la pressione fiscale complessiva che è schizzata nel 2009 al 43,5%, al terzo posto fra i Paesi dell'Ocse. Nonostante le promesse di riduzione e semplificazione che ci sentiamo ripetere da almeno dieci anni. Per raggranellare denaro i sindaci hanno dato sfogo alla fantasia. Alcuni hanno anche rispolverato la «tassa sull'ombra» del 1972, che colpisce «la proiezione sul suolo pubblico di balconi, tende e pensiline».
Con le casse sempre più vuote, ma nessuna voglia di incidere sulle spese improduttive, gli enti locali hanno di fatto scaricato sui cittadini i sacrifici imposti dal governo centrale. Aggirando ad esempio il blocco delle addizionali comunali sull'Irpef, in vigore dal 2008, pompando le tariffe. Anche i governi, poi, ci hanno messo del loro. Per esempio con l'abolizione dell'Ici sulla prima casa, l'unica tassa «federalista» vigente in Italia, sacrificata sull'altare dell'ultima campagna elettorale. E pazienza se, come rivelava uno studio dell'Ifel, l'istituto di ricerca dell'Anci, tra il 2004 e il 2009 le tariffe comunali sono cresciute a una media del 3,5% annuo. Il doppio dell'inflazione, con punte stratosferiche per i rifiuti (+29% tra il 2004 e il 2009, e continuano ad aumentare) e i servizi idrici, le cui tariffe crescono in media del 5% l'anno. Dopo l'immondizia e l'acqua, l'ondata dei rincari nel 2010 e in questo primo scorcio del 2011 si è abbattuta su asili nido, mense scolastiche, piscine e impianti sportivi, musei, servizi cimiteriali, trasporto locale. E nel Milleproroghe, appena approvato dal Senato, c'è una nuova sorpresa: tutti i Comuni, anche quelli che non si trovano in emergenza rifiuti, potranno aumentare le tariffe fino a coprire l'intero costo del servizio. Incrociamo le dita.
Il caso dell'Ama, che oltre ad essere l'azienda municipalizzata per l'ambiente del Comune di Roma è anche uno straordinario collettore di voti, forse vale per tutti come cattivo esempio di amministrazione. Il bilancio del 2008 si è chiuso con una perdita monstre di 257 milioni di euro. E il 2009 sarebbe stato archiviato con un altro buco di 70 milioni, senza il contributo di 30 milioni erogato dal Comune e l'aumento delle tariffe per ben 40,8 milioni di euro. E tutto questo mentre i crediti verso gli utenti morosi aumentavano, in dodici mesi, di 108 milioni, raggiungendo la cifra astronomica di 623 milioni di euro. La circostanza non ha comunque impedito all'azienda di assumere nuove legioni di dipendenti: 91 nel 2008, 489 nel 2009, 766 nel 2010. Impiegati, netturbini, perfino 164 spalatori di foglie ingaggiati in un colpo solo. Poi, naturalmente, anche parenti e amici dei politici.
Per rendersi conto del disordine che regna negli enti locali del nostro Paese, del resto, è sufficiente dare uno sguardo a una tabella elaborata dal senatore del Pd, Marco Stradiotto, componente della Bicamerale sul federalismo, sui dati del ministero dell'Interno. Si scopre, per esempio, che su ogni cittadino di Cosenza grava un costo del personale comunale di 506 euro l'anno: quasi il doppio rispetto a una città poco più grande come Cesena (271 euro), e addirittura il 117% in più nei confronti di Catanzaro (233). Per non parlare delle differenze macroscopiche che ci sono fra Regione e Regione. La Sicilia, con metà dei residenti della Lombardia, sopporta una spesa per il personale regionale nove volte superiore (un miliardo 782 milioni contro 202 milioni). E investe nelle infrastrutture ferroviarie 13,9 milioni l'anno, 57 volte meno della Lombardia (786 milioni). Differenze eclatanti, che danno anche la dimensione dell'assistenzialismo in salsa locale.
Il bello è che cominciano a saltare fuori solo adesso. Dopo che i tecnici della Commissione mista tra governo ed enti locali per l'attuazione del federalismo, guidata da Luca Antonini, sono quasi impazziti per riportare su base omogenea i bilanci dei Comuni, dove molte spese sono nascoste dall'esternalizzazione dei servizi, e delle Regioni, scritti in quindici modi diversi. In attesa di quello fiscale, in Italia regna da sempre il federalismo contabile, nel senso che ognuno si fa il bilancio a modo suo. E a nulla sono valsi, finora, i tentativi di mettere un po' d'ordine.
Vi siete mai chiesti perché da qualche tempo in qua se un'amministrazione di destra sostituisce una di sinistra, o viceversa, la prima cosa che fa è mettere i libri contabili in mano a un ispettore del Tesoro? Certamente per scaricarsi delle responsabilità dei predecessori. Ma anche perché i bilanci sono così complicati e poco trasparenti che dentro ci si può nascondere di tutto. Dalla due diligence eseguita dalla Ragioneria generale dello Stato sui conti della Campania, richiesta dall'attuale governatore Stefano Caldoro, sono saltati fuori «bilanci di previsione fortemente sovradimensionati rispetto al reale andamento degli impegni, e pagamenti ancora più incoerenti». Per dire poi come sia possibile piegare i bilanci a ogni esigenza, la Regione, allora guidata da Antonio Bassolino, ha pagato spese che non potevano essere coperte facendosi prestare i soldi dalle banche. Come la manutenzione dei boschi (210 milioni), oppure il servizio di «monitoraggio» (21 milioni) del patrimonio forestale alla Sma Campania, società partecipata dalla Regione che aveva assunto 568 lavoratori socialmente utili. Le cose non vanno meglio con i bilanci dei Comuni. Nell'estate del 2010 la Corte dei conti ha trovato in quello di Foggia cose turche. Non esisteva un inventario dei beni comunali, ma in compenso c'era un contenzioso civile devastante, con decreti ingiuntivi per 30 milioni. Nel bilancio erano contabilizzate come residui «attivi» somme impossibili da incassare. Insomma, una baraonda totale.
I decreti attuativi sul federalismo fiscale ora promettono di metterci una pezza, imponendo l'omogeneità dei bilanci. Ma non a tutti, perché per le Regioni a statuto speciale le regole sono dettate dagli Statuti, che hanno rilevanza costituzionale. Dietro l'angolo si profilano altre insidie, ma non si può che partire da qua. Facendo ordine nel caos dei numeri, mettendo al bando con la trasparenza i giochi di prestigio degli amministratori furbacchioni. Poi toccherà ai cosiddetti «fabbisogni standard», che dovrebbero far superare il principio della «spesa storica», grazie al quale vengono premiate le amministrazioni più spendaccione. Di che cosa si tratta? Si stabilisce sulla base di parametri economici e territoriali qual è il costo efficiente di un servizio: la polizia locale, l'asilo nido, l'impianto sportivo... Chi vuole spendere di più si arrangi. Dallo Stato non arriverà un euro in più: o si risparmia altrove, o bisognerà aumentare le tasse, e poi rendere conto, ai propri elettori. Ma questo, come vedremo nelle prossime puntate, non è affatto «federalismo». Anche Luca Antonini parla di «razionalizzazione della spesa pubblica». La devolution è un'altra cosa. Anche se ci ostiniamo a chiamarla così.

Fuori (per ora) Al Bano e Patty Pravo La gag di Luca & Paolo punta su Saviano

MILANO - Son et lumière. A dare il «la» alla seconda serata del Festival 2011, che si concluderà con la clamorosa bocciatura degli «anziani» Al Bano e Patty Pravo (non è un Sanremo per vecchi?) è la bacchetta di Daniel Ezralow, il coreografo americano che muove i corpi sotto fasci di luce fino a comporre un animato (dai corpi) Sanremo. La novità (anche mercoledì sera) è che Morandi, in veste di capitano, brilla di strass. Belen è la prima delle fanciulle a scendere dall'ascensore trasparente del Teatro Ariston. Morandi nel suo smoking di lamè le fa concorrenza. «Ho messo due centimetri di tacco per rispetto», dice Belen. Entrambi si lanciano nell'elogio della mamma. «La mamma è sempre la mamma», chiosa Morandi, in vena di originalità. Belen («se poso») aggiunge alla mamma un'altra persona veramente stimata con cui «abbiamo pure dormito insieme». Vi aspettereste chissachì. (il fidanzato Corona, per esempio). E invece è Elisabetta Canalis. Splendente in un mezzo nudo (derrière) bianco. Belen è in nero. Affettuosità tra le fanciulle. Fra le due è un duetto «anema e core». E bacetto finale.
I BIG - La prima a salire sul palco è Natalie. Al pianoforte canta «Vivo sospesa». Al Bano ri-canta la sua «Amanda è libera». E solo alla seconda esibizione Belen si butta in un giudizio tecnico: «Sento che gli artisti hanno cantato con più sicurezza». Entrano Luca & Paolo lanciati in un nevroticomedley di pezzi di Gianni Morandi, a base di «gufo con gli occhiali». Finché irrompe capitan Gianni intonando: «Quando avrai le mani stanche...». Cambio radicale di look per Patty Pravo. L'educanda di ieri è ora in pantaloni tempestati di pietre luccicanti grigio metallizzato e chiodo di pelle con frange sulle maniche. Canta il suo «Il vento e le rose» cercando di superare con la voce le voci del pomeriggio che la davano offesa e indignata con i critici che non le hanno dato la sufficienza in pagella. Segue Tricarico con «3colori».
MAZZE - La battuta sarebbe: «Diamo i fiori alle mazze». Luca & Paolo mettono in mezzo il direttore di Raiuno Mauro Mazza e il direttore artistico Gianmarco Mazzi «Direttore ci scusi se ieri l'abbiamo preso per i fondelli» e s'inchinano al direttore di Rai Uno rifilandogli un bouquet di fiori gialli. Tocca poi alla coppiaMadonia-Battiato che cantano «L'alieno». E nessuno si preoccupa delle accuse di autoplagio piombate nel pomeriggio su Battiato. Occhiali scuri, a parte. Belen, orecchini rossi, chiede a Morandi «Sono stata brava?». Si passa a presentare Max Pezzali con «Il mio secondo tempo». Salgono poi sul palco dell'Ariston i La Crus (accompagnati dalla soprano Susanna Rigacci) con «Io confesso» in cui raccontano «non resisto alle tensioni».
ITALIA-CUBA E LA PAPERA - Piccola rassegna di grandi film. Entra in scena Andy Garcia . Ammette che canta e suona cubano. E si sente italiano per indigestione. «Mangio tanto», dice. Tocca poi a una biografia strappata da Gianni Morandi allo sposatissimo Garcia. Più che intervistarlo Morandi lo guarda come un ragazzino fino alla richiesta di intimità: «Sei stato un buon marito, non all'italiana». E Handy: «Io guardo però non tocco». Che altro poteva dire? Il ricordo del post rivoluzione. Cuba nel cuore... Garcia prova a dire cose serie. Il capitano Morandi continua con la sua pseudo-intervista, densa di banalità e «Senti...», quasi a ogni domanda. Prima dell'esibizione al piano arrivano «Le due ragazze che mi aiutano» (dice Morandi). Eli, abito color mattone-topazio, mostra subito il suo fluent inglese. Belen, in cobalto, è silenziosa. Lancia occhiate ispirate a Garcia che ormai sta concentrato sulla tastiera del pianoforte. E parte il duetto Garcia-Morandi. «Cuba libre...». Belen si dimena alzando l'abitino al ginocchio, mentre il ritmo (suonato pacato da Garcia) mette l'agitazione a Elisabetta Canalis. In avanti e in retro. Pochi secondi. E molti flash. Non passa inosservata la «papera in diretta» di Gianni Morandi. Parlando con Andy Garcia, ha ricordato le celebrazioni dei «150 anni dalla nascita della Repubblica italiana». Dopo la pausa pubblicitaria, torna sul palco e si corregge dicendo che sono i 150 dell'Unità d'Italia.
DIALETTO - Ripartono le canzoni in gara. Raquel del Rosario e Luca Barbarossa sono presentati in coppia da Belen ed Elisabetta. Il loro «Fino in fondo» porta «Su su su nel cielo... giù giù giù nel mare». Raquel stasera è in rosa antico mono-spalla, sopra il ginocchio. E nastrino sulla chioma scurissima con codino di tessuto intrecciato che scende alla spalla. Tenera è la mise. In cappottino scuro (ieri era in bianco) arriva Davide Van De Sfroos. Prima che la musica inizi si sentono gli urletti di gioia di Belen («l'ho deto, l'ho deto...»). «Yanez», come altri brani del suo repertorio, è un mix di Dylan e di certe ballate di Willy DeVille, con gli ottoni latino-americani. Il tutto passato attraverso il dialetto «laghee».
LA GAG - Il veleno satirico-politico, oggi, tocca a Saviano. C'è la mafia... «Lo so, lo so». Due o tre tentativi di qualunquismo per passare a Santoro («Non si sa se andremo ancora in onda»). «Hai mai sentito qualcuno che faccia satira su Saviano e Santoro?» chiede uno. «Non si può, non si può». Si passa a Fini. «Questi sono i buoni». La satira va fatta, dicono i due, su quello (politico) industriale che non ha capelli e crede di essere padrone del mondo. «Uno che sta a Roma e sembra fatto apposta per farci satira». E questo è la par condicio che dovrebbe calmierare a «sinistra» il «Ti supererò» della prima serata. Per buona pace di Iva Zanicchi, come dice Stefania Ulivi sul suo Blog che, a metà serata, fa il punto sul Morandi Social Club. Arriva poi Roberto Vecchioni con il suo «Chiamami ancora amore». È la volta di Giusy Ferreri con «Il mare immenso».
MALO DI BELEN - Belen Rodriguez con un mini vestito che scopre interamente le gambe chilometriche canta «Malo», il tormentone dell’estate 2006 della spagnola Bebe. (S)vestita di nero si lancia in un ballo provocante con i danzatori del Festival senza perdere mai il fiato. Applausi calorosi.
I GIOVANI - Per il pubblico sonnolento di «quasi mezzanotte» parte la rassegna dei «giovani». Comincia la cantautrice marchigiana Serena Abrami con la canzone «Lontano da tutto». Poi tocca ad Anansi, nome d'arte di Stefano Banno, classe 1989. A seguire Gabriella Ferrone,Raphael Gualazzi intervallati dall'ospite, la cantante Eliza Doolittle. A mezzanotte si chiude il televoto. Sulla questione, già spinosa, s'inserisce un'altra incognita. L'errore nel numero del televoto. Sono Luca e Paolo a entrare di corsa sul palco dopo l'esibizione della prima «giovane», Serena Abrami, e a spiegare ai telespettatori che il numero fornito in precedenza per votare i propri artisti preferiti era sbagliato. In palese imbarazzo, danno il numero giusto per telefono fisso e sms. Questo errore potrebbe penalizzare la prima cantante? Se dovesse essere eliminata, di certo le polemiche non mancherebbero.
I BOCCIATI - E dopo le acrobazie di pole dance, ginnaste al palo appunto, che vorrebbe essere erotica, tocca alle esclusioni. Nella seconda serata del 61 Festiva di Sanremo, la giuria dei 300 giurati (come piace ripetere a Morandi e ora anche alla Canalis) ha bocciato, salvo ripescaggio, gli «anziani» Patty Pravo e Al Bano. Per ora.